Dirk Kurbjuweit, vice direttore di Der Spiegel, è noto per la sua profonda conoscenza dell’era Merkel e, in genere, dello scenario politico europeo. Eppure, accanto a una prestigiosa carriera giornalistica, Kurbjuweit vanta anche una intensa passione per la scrittura, narrativa e cinematografica. E proprio in qualità di autore l’ho incontrato sulle pagine di MilanoNera, in occasione della mia lettura e recensione al suo ottavo romanzo Angst (ndr: edito per l’Italia da Bollati Boringhieri, con il titolo L’ombra della paura). Lo spiccato interesse suscitato in me dalla vicenda portante, un vicino di casa che diviene in breve tempo l’implacabile persecutore di una famiglia borghese, e il rimando a una dolorosa esperienza personale, che lo stesso Kurbjuweit ha dichiarato in concomitanza all’uscita del romanzo, hanno creato l’occasione di questa intervista. Influenzata devo ammetterlo, come già la lettura, da due concetti che non mi hanno mai abbandonato e che appartengono alla cattedrale psicanalitica di Freud: “angoscia”, ovvero una paura sfumata di inquietudine, e “perturbante” a indicare ciò che è stato familiare e rassicurante fino a un attimo primo ma che all’improvviso, per l’insinuarsi di una sfumatura sinistra, si trasforma in pauroso. E che cosa c’è di più perturbante della nostra casa appunto, rifugio di serenità e certezza, che a un tratto diviene luogo di minaccia e persecuzione? Giro la domanda a Dirk Kurbjuweit.
Confesso la mia personale predilezione per il romanzo di introspezione psicologica, narrativa di formazione o crime che sia. Il suo ultimo romanzo Angst è in primo luogo un formidabile viaggio all’origine delle proprie paure. Il suo protagonista, Rudolph Tiefenthaler, arriva infatti a chiedersi, “Non è terribile che non si possa mai vivere senza paure, né da bambini né da adulti?
La prima domanda, dunque, non può essere che questa: che cos’è per lei la paura?
La paura è un potere misterioso che rende immane qualunque problema.
In Angst l’idillio di una famiglia borghese è spezzato dall’incursione di un vicino che si rivela dapprima solo invadente, poi sempre più minaccioso e destabilizzante. La sua stessa famiglia è stata vittima, credo una decina di anni fa, di una persecuzione analoga, anche se nel suo caso il molestatore è poi morto per cause naturali. La diversa fine che subisce lo stalker nel romanzo è stata per lei una sorta di catarsi?
All’epoca in cui la mia famiglia e io attraversammo questo calvario, l’idea di uccidere lo stalker, devo confessarlo, parve una soluzione nelle ore più buie. Una soluzione impossibile, tuttavia. Così [la scrittura di questo romanzo] rappresenta una catarsi nel senso che ho dovuto dare a quella soluzione una sua realtà, che mettesse pace a tutti i miei umilianti ricordi.
Per il lettore è sempre forte la tentazione di ravvisare nel protagonista di un romanzo il suo stesso autore. In Angst poi diventa quasi irresistibile, visto che Rudolph Tiefenthaler è anche l’io narrante. Il grande Raymond Queneau in Icaro involato mostra invece un autore così incapace di controllare l’autonomia dei suoi personaggi da permettere loro di darsi alla fuga.
Di quale ‘libertà’ emotiva ha goduto Rudolph rispetto al suo personale vissuto?
Io non sono Tiefenthaler, ma lui è una parte di me, affine ma differente, simile soprattutto negli aspetti del mio carattere che io non amo.
Stefano Montefiori, giornalista de Il Corriere della Sera, ne La lettura dello scorso aprile, la annovera tra cinque grandi giallisti che condividono un unico tema: la famiglia è un inferno.
Insomma, aveva ragione Andrè Gide quando si scagliava così: “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità”?
Certo, aveva ragione. Ed è quanto accade per la democrazia (ndr: l’autore allude alla celebre affermazione di Winston Churchill “Democracy is the worst form of government, except for all the others”. La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre). Le famiglie sono il modo peggiore di attraversare la vita, eccezion fatta per tutti gli altri.
In un’intervista rilasciata a The Guardian lei riflette con ammirevole profondità sul rapporto tra realtà e finzione in romanzi basati su esperienze personali e cita le parole di Salman Rushdie “Scrivere è una ricerca interiore nell’anima”.
Quanto coraggio occorre per scavare in esperienze così dolorose come la violenza da stalking, che finisce per inquinare anche i rapporti familiari e la percezione di sé?
Scrivere di un’esperienza dolorosa è come sognare di camminare lungo la strada principale della tua città e accorgerti all’improvviso di essere nudo. Le tue parti intime sono esposte allo sguardo di tutti. La differenza, in quel caso, sta nel fatto che sei tu che ti spogli, tu sei nudo per tua volontà. Ma non fa differenza, la sofferenza è la stessa.
Lei non solo ha firmato otto romanzi, ma è anche giornalista di successo e sceneggiatore. Come cambia il suo approccio alla scrittura tra queste forme espressive così differenti?
Le differenze non potrebbero essere maggiori. Come giornalista, io devo attenermi alla verità, sono obbligato a cercare quale essa sia. Come scrittore, sono padrone della mia personale verità.
In Angst, tra i ricordi del protagonista, lei descrive con parole toccanti un viaggio tra le due Germanie, sul finire degli anni ’60: “Perché i tedeschi dell’Est avevano costruito quel muro enorme, innalzato torrette di osservazione, ammucchiato sacchi di sabbia e messo dei soldati a pattugliarlo se non c’era nient’altro da proteggere fuorché stazioni, piazze e strade senza anima viva?”
In estrema sintesi, quali cambiamenti ha prodotto nella società e nella cultura il crollo di quel muro?
Sì, esistono ancora molte differenze nel comportamento, nell’immagine, nelle opinioni in seno alle generazioni più anziane. Penso che potrei riconoscere uno dell’Est dopo avergli parlato anche solo cinque minuti.
Ancora nel romanzo, la grande paura giovanile di Rudolph Tiefenthaler è rappresentata da un attacco nucleare. Oggi nella Repubblica Federale, di fronte a una Russia in riarmo, molti caldeggiano una revisione del paradigma di sicurezza tedesco, vista la debolezza degli arsenali francese e britannico e l’imprevedibilità di Trump sullo scacchiere internazionale.
Qual è la sua opinione in merito?
No, un riarmo nucleare della Germania non è affatto necessario. Mi auguro che gli Stati Uniti tornino a essere affidabili, una volta finita l’era di Trump. A lungo termine però, io credo che l’Europa avrà bisogno di un ombrello nucleare, sotto il controllo europeo.
Lei è un profondo conoscitore dello scenario politico europeo.
A suo parere, oggi, quale dovrebbe essere la più grande paura degli italiani?
Io penso che uno stato e un popolo possano perdere il senso di una cultura politica ragionevole. E vedo che l’Italia è avviata in questa direzione. Il processo è iniziato con Berlusconi, più o meno un piccolo Trump, quando tutti i canoni sono venuti meno. E ancora non sono stati ristabiliti. Anzi, con il nuovo governo, la situazione sta peggiorando. Si tratta comunque della mia opinione di osservatore lontano, basata aulla lettura dei giornali. Non sono nella posizione di giudicare la politica italiana.
Ringrazio Dirk Kurbjuweit per questo incontro, letteratura e attualità che si dividono la scena, ma soprattutto per aver scritto un romanzo che dimostra oltre ogni dubbio come la narrativa possa essere catarsi e riscatto della realtà stessa.
Qui la nostra recensione a L’ombra della paura