Io credo che le donne abbiamo bisogno di sentir raccontare. E di sentir raccontare la loro storia. Un po’ perché la memoria si è fatta breve, anche per le ingiustizie più grandi. E un po’ perché al racconto o dal racconto sono state a lungo escluse. Mi permetto allora di segnalare due cose molto diverse.
Una è il festival Narrazioni 2008 organizzato dalla Scuola di Narrazioni Arturo Bandini di Arezzo (www.narrazioni.it) presso il Cassero della Fortezza Medicea di Poggibonsi (Siena) dal 31 maggio al 2 giugno.
Oltre alla solita passerella d’ospiti più o meno famosi, la rassegna è interessante proprio perché punta a stimolare la libertà del narrare in tutti e tutte, a trasformare il racconto in un gioco e l’arte in un racconto. Per esempio organizza un concorso letterario gratuito, Libera i Libri, per le performance ispirate a opere di narrativa. In palio c’è un premio e soprattutto un accordo con la Scuola di Narrazioni per l’allestimento di una produzione di teatroletteratura.
La seconda segnalazione in apparenza non c’entra nulla, ma ha che vedere con il problema del linguaggio.
È un importante, ricco, denso, difficile saggio della FrancoAngeli, che si intitola Una democrazia incompiuta. Sottotitolo: Donne e politica in Italia dall’Ottocento ai nostri giorni. Lo hanno curato Nadia Maria Filippini e Anna Scattigno, ovvero due delle maggiori rappresentanti della storiografia contemporanea italiana. All’interno, tanto per fare qualche esempio, si racconta del lungo percorso fino al voto e di tutti i tentativi respinti di ottenerlo prima della nascita della Repubblica.
Si narra delle riviste femminili e femministe, di come trattassero in modo diverso non soltanto temi caldi come divorzio e sesso, ma perfino la moda e le interviste ai divi dello spettacolo. Si riferisce della particolare esperienza delle donne sindaco in Calabria negli anni Novanta e del perché le italiane siano così singolari nel contesto internazionale. Io lo trovo un libro interessantissimo. E tuttavia, mentre leggevo, mi cresceva dentro un leggero disagio. Che provo spesso. E non solo, ovviamente, davanti ai saggi di storia delle donne. Ma davanti a tutti i libri di storia, sempre più importanti per non cadere nella trappola pericolosissima dei pregiudizi, del “un tempo era meglio”, “ma come siamo finiti”, “non si sono mai viste cose del genere” (noi donne, invece, abbiamo quasi sempre visto di peggio).
Mi chiedo, dunque: come si fa a creare un ponte tra queste pagine, fitte di dati e idee importanti, ma scritte spesso in modo difficile o comunque senza troppa attenzione alla necessità di “agganciare” il lettore e tenerlo agganciato sino alla fine, e le lettrici? D’altra parte è ovvio: si tratta di ricerche universitarie e ci si aspetta che il pubblico non scelga questo volume per distendersi sotto l’ombrellone. Però i dati (tristi) sulla lettura in Italia e la crescente ostilità verso le istanze femminili, rendono sempre più importante che le donne “che sanno” parlino a quelle che sanno meno o hanno dimenticato o vorrebbero non sapere.
E dunque mi chiedo: sono le storiche che dovranno scendere a patti con un linguaggio non soltanto più facile, ma più attraente? Oppure tocca ad altri, per esempio a noi giornalisti, convincere le donne, che pur essendo la maggioranza dei lettori in Italia, tendono a scegliere narrativa rosa o gialli, a tirar giù dallo scaffale qualche libro che parli davvero di loro e non di ricche newyorkesi stressate dai troppi partner e dai troppi soldi (di Sophie Kinsella è addirittura appena uscito I love shopping per il baby)?
Io credo che lo spazio ci sia: passate in rassegna le classifiche, sia di saggistica sia di narrativa. Prevalgono i libri intelligenti. Ma che si possono anche portare sotto l’ombrellone.