Bruno Morchio in libreria da pochi giorni con il suo nuovo romanzo Dove crollano i sogni, collana Nero Rizzoli, ha cortesemente accettato di risondere a qualche nostra domanda.
Doveva arrivare il 31 marzo, ma il lockdown l’ha messo pazientemente in lista d’attesa E dunque il tuo nuovo noir è uscito solo martedì 5 maggio. In Dove crollano i sogni hai lasciato il centro storico per raccontarci una storia che si dipana alla vigilia della tragedia dell’agosto 2018. Una storia che oggi a quasi due anni di distanza ci costringe anche a parlare della trionfale riapertura del viadotto sul Polcevera. Nel tuo libro il Ponte Morandi si ergeva ancora a testimone, protagonista e simbolo di un impietoso ritratto della periferia genovese di Certosa, quartiere ormai noto ben al di là della valle. Questo attuale traguardo cosa vorrà dire per Genova? Per quella periferia, per i genovesi?
Significherà molto, perché il crollo del ponte ha tagliato in due la città, con pesantissime ricadute sulle sue principali risorse economiche, il porto e il turismo, e determinando una congestione del traffico nella zona di ponente, con conseguenze gravi sulla salute e la vivibilità degli abitanti che, guardacaso, appartengono alle classi meno agiate.
Ma stiamo ancora vivendo la Pandemia. Il coronavirus ci ha imprigionato tutti per mesi. A tuo vedere quanta strada c’è ancora da fare e quante nuove e quali migliori possibilità ci vorrebbero per Genova?
Genova è una città tutta da riprogettare; infrastrutture, trasporti, attività produttive, fragilità del territorio, scolarità e soprattutto invecchiamento della popolazione costituiscono problemi endemici che si sono accumulati negli anni della de-industrializzazione. E’ una città che per gran parte vive di previdenza sociale. È il sud del nord. Prima o poi occorrerà mettere mano a tutto questo con una capacità di visione, e questa non può prescindere dalle ricadute della pandemia. Gli scenari non sono affatto rosei, anche se forse si apre qualche spiraglio, a condizione che la memoria non sia troppo corta. Questa tragedia ci ha insegnato qualcosa riguardo a ciò che è davvero importante e ciò che non lo è? A me sembra che si parta con il piede sbagliato: una parte della politica e Confindustria chiedono al governo di de-regolamentare per rilanciare l’economia. Ma cosa si vuole davvero? Perché un conto sono le pastoie burocratiche, che non piacciono a nessuno, un altro è la vecchia ricetta liberista della deregulation, che ci ha portati al punto in cui siamo e che non mi sembra la più indicata nel Paese dove prosperano le tre organizzazioni mafiose più potenti del mondo.
Un nuovo libro, un libro inatteso e diverso questo tuo: Dove crollano i sogni. In cui spicca la tua volontà professionale di frugare tra le piaghe giovanili che affliggono una grossa parte dei ragazzi di oggi? Cosa ti ha spinto a scriverlo?
È la stata la risposta a caldo al crollo del ponte, che ha puntato i riflettori su quella periferia post-industriale che negli ultimi trent’anni ha subito un cambiamento radicale. E ho voluto raccontare quel cambiamento partendo proprio dall’ultima generazione, quella senza un futuro. Quella cresciuta rintronata dalle sirene del neo-liberismo, che nella realtà si ritrova ormai impossibilitata a realizzarne i sogni (arricchimento facile, idolatria del consumo), scontrandosi con una realtà fatta di disoccupazione, lavoro precario, scarsa scolarizzazione e blocco degli ascensori sociali.
Tu che conosci bene il problema dal punto di vista psicologico, perché i ragazzi del tuo libro hanno o almeno sembra abbiano dimenticato la realtà per calarsi in un pseudo limbo dove si deve cercare una specie di sballo a ogni costo. Tutto troppo facile? Dipende dai genitori o dal lassismo della società che li circonda e in cui si viene definiti ragazzi fino a quarant’anni?
Alla base c’è una situazione diffusa di degrado e impoverimento non solo economico, ma culturale, progettuale, di opportunità e perfino sentimentale. Alcune recensioni hanno giustamente puntato l’attenzione su quest’ultimo aspetto. Quando a una generazione viene rubato il futuro è il presente che diventa asfissiante, insopportabile e sinistro. Perciò la protagonista, Ramona detta Blondi, cerca una via di fuga. Ma paradossalmente lo snodarsi della vicenda fa sì che le sue scelte, rivolte a liberarsi da una situazione che lei vede con lucidità, la condizionino rendendola sempre più prigioniera del suo destino.
Blondi nel tuo libro si trasforma nell’anima nera del suo ragazzo, Cris. Ritieni che per una ragazzina, povera ma bella come questa specie di Barbie, piuttosto che a un quasi coetaneo maschio, sia più logico guardare al male?
Credo che il sogno della Costa Rica abbia a che fare più col passato che col futuro, fa riferimento a un maschio; non Cris, ma il padre che Ramona non ha mai conosciuto. La madre le ha detto che era un marinaio e la sua fantasia è che provenisse dai Tropici. Quella di Blondi è una ricerca inconsapevole del padre, condita da mitologie assorbite attraverso il cinema e le serie tivù di cui è un’ingorda consumatrice.
Oppure è colpa di certi attuali modelli che falsano tutto e portano a credere che tutto sia concesso e tutto sia permesso?
Nella coscienza di Blondi non c’è traccia di un autentico conflitto, e quindi neppure di un genuino senso di colpa. A sprazzi fa capolino il rimorso, che la fa sentire “sporca”, ma è una condizione scissa, che non genera alcuna tensione morale e le consente di agire in modo spregiudicato, a volte spietato. Questa spietatezza è ascrivibile a un deficit educativo (gli adulti del romanzo non ne escono bene), ma anche alla macchina inesorabile del destino, che non dà libertà di scelta. Ho imparato questa lezione dal grande noir americano e francese, da Caine a Simenon a Malet a Manchette.
L’ottocento prima e il novecento poi con il contemporaneo avvallo religioso (e la condanna di stragi, turpitudini, e vari tipi di uccisioni dei secoli scorsi quando anche i bambini erano attenti spettatori e talvolta esecutori) hanno contribuito a creare un falso modello di obbligatorio “buonismo etico”. Per cui i ragazzi sono per antonomasia innocenti. E invece tanti giovani, troppi, escono dal seminato. É possibile che ci sia qualcosa in questi ragazzi che inesorabilmente li respinge verso crudeli tempi atavici ?
L’era che viviamo, quella dominata dal capitale finanziario, ha instaurato un nuovo ancien régime, che ha precisamente le caratteristiche da te indicate. Un mondo dove la vita, la persona e la dignità umane non valgono nulla. In questo l’Europa costituisce un baluardo culturale che però è stato in parte eroso nei fatti dalla mancata unificazione politica.
Cosa si dovrebbe o potrebbe fare secondo te per far riuscire a cambiare il modo di ragionare e muoversi dell’attuale generazione ?
Puntare sulla scuola e sulla cultura una posta altissima, follemente, scandalosamente alta, perché questo sarebbe il segnale che si guarda davvero al futuro e non all’immediato tornaconto dettato dai sondaggi. È evidente che chi bazzica il Papeete è su un’altra lunghezza d’onda, ma anche nell’altro schieramento non sono molti quelli che l’hanno compreso.
E sempre a proposito del Corona virus a tuo vedere la gente uscirà da questa drammatica esperienza con più raziocinio, oppure?
La gente ha dimostrato di valutare con raziocinio finché ha avvertito un pericolo reale, cioè finché la paura è stata la stella polare che ha guidato giudizi e comportamenti. Insisto: una paura motivata, fondata su dati statistici, non la paura fasulla dell’invasione migratoria o della presunta insicurezza delle strade, frutto di una propaganda priva di scrupoli. Non so quello che accadrà dopo. Se ci abitueremo a ragionare numeri alla mano, avremo qualche chance in più di non andare a sbattere, anche se è prevedibile che ci aspetta un impoverimento diffuso. Sapremo darci una spinta per ridurre le disuguaglianze, individuare un nuovo ordine di priorità e rovesciare tanti miti di cui ci siamo nutriti in questi decenni?
Domanda finale d’obbligo. Prossimo libro?
Annaspo, ma so che devo cominciare a scrivere.
MilanoNera ringrazia Bruno Morchio per la disponibilità