Tu sei inglese ma tutti i tuoi romanzi sono ambientati negli Stati Uniti, come mai hai scelto questa ambientazione?
Sono cresciuto circondato dalla cultura americana, con le pellicole degli anni d’oro di Hollywood – James Cagney, Jimmy Stewart, Edward G. Robinson, Bogart e Bacall, e con le serie tv di Starsky e Hutch, Hawaii Five-O, Kojak e Mission Impossible. Ne apprezzavo molto l’atmosfera, la diversità di cultura, e il fatto che ogni stato è completamente diverso da tutti gli altri, e ce ne sono ben 50!
Rispetto all’Inghilterra, l’America è un paese giovane e c’è più vivacità, più vita nella loro società che, come non-americano, posso osservare come spettatore. Lo scrivere di una zona che si conosce bene fa sì che ci si soffermi solo su alcuni aspetti, trascurandone altri, correndo così il rischio che i dettagli più strani e interessanti circa le persone e i luoghi smettano di essere tali e si diano per scontati. Come osservatore esterno,al contrario, hai l’occasione di vedere le cose per la prima volta e da un punto di vista privilegiato e per me questo è molto importante. Molti scrittori dicono di scrivere delle cose con le quali hanno familiarità. Non credo sia sbagliato, ma penso sia un limite; si dovrebbe scrivere delle cose che ci affascinano, qualunque esse siano e ovunque si trovino. In questo modo si ha la possibilità di far emergere attraverso la scrittura la nostra passione e l’entusiasmo per l’argomento,
Credo anche che ci si debba mettere in gioco in ogni romanzo, affrontando argomenti diversi e variegati, non voglio cadere nella trappola di scrivere secondo la solita formuletta.
Una volta mi dissero che ci sono due tipi di romanzi: i primi sono quelli che si leggono per trovare la soluzione al mistero, i secondi per lo stile dell’autore, per la sua scelta delle parole, per le descrizioni e per l’atmosfera che ha saputo creare.
I veri grandi romanzi sono quelli che riescono a soddisfare entrambe le esigenze.
Ogni autore vuole scrivere grandi romanzi, sono convinto che nessuno – nel profondo del suo cuore – lo faccia perché ritiene sia una scelta sensata per farne una professione o un’attività su cui lucrare.
Io semplicemente adoro scrivere Se il soggetto del romanzo mi porta negli Stati Uniti non importa, ciò che conta, almeno per me, è riuscire a dare forma a un contenuto che possa appassionare il lettore, suscitare emozioni e, magari, riuscire a fargli cambiare visione sulla vita e ovviamente cerco di farlo stilisticamente al meglio delle mie capacità.
Da dove viene il tuo interesse per la storia americana?
Come ho già detto prima, ha avuto inizio da bambino con il mio amore per la musica e il cinema americano e, crescendo, si è trasformato in una profonda attrazione verso tutti gli aspetti di questa cultura, sia positivi che negativi.
Ne Il circo delle ombre ti focalizzi sugli anni ’50, sull’appena nato FBI e sull’idea che sia coinvolto in alcune cose poco raccomandabili. Ci sono prove a riguardo? Se sì, cosa è reale e cosa è solo pura finzione?
C’è una grande quantità di prove, un’infinità di teorie e milioni di sospetti circa il coinvolgimento delle agenzie di sicurezza americane nelle attività illecite inerenti alla criminalità e alla corruzione.
In Un semplice atto di violenza, ne Il circo delle ombre e in molti altri dei miei romanzi mi sono occupato di questi argomenti
Naturalmente ci sono un sacco di informazioni false e dati inattendibili, ma è innegabile che il governo americano, come molti altri, si è reso colpevole della violazione di molte leggi, sia proprie che internazionali, per esempio per affermare la propria supremazia politica o procurarsi risorse naturali
Quando scrivo creo personaggi di fantasia, e li faccio agire all’interno della mia personale interpretazione di eventi realmente accaduti, spesso incrociando la loro storia con quella di persone realmente esistite.
Il personaggio principale è un agente speciale della nascente sezione profiling dell’FBI. Cosa ne pensi del profiling?
Penso sia una pratica inesatta e ancora inattendibile, perché non c’è una comprensione completa e pratica del rapporto tra mente e cervello. E’ una grande quantità di teoria psichiatrica e psicologica dedotta da informazioni non provate o sostanziali. Qualcosa funziona, ma molto dipende dall’intelligenza di chi la pratica e dalla capacità di tradurre e interpretare le caratteristiche umane. Non è una scienza, è un’arte. Finché il profiling non verrà elevato al livello di scienza, sarà sempre inaffidabile.
Credi nel potere della mente?
Assolutamente. Credo che le capacità della mente non siano ancora state del tutto comprese e ancor meno le sue potenzialità messe a frutto.
Qual è la tua opinione circa le “teorie della cospirazione”?
Dove c’è fumo c’è arrosto . E’ presto detto: presumiamo che i nostri governi siano buoni, formati da persone oneste che stanno facendo del loro meglio. Mi intristisce sapere che raramente è vero. La storia insegna che i governi non stanno dalla parte del popolo ma sono corrotti e si occupano dei propri interessi.
Perché hai deciso di inserire alcuni elementi di magia ne Il circo delle ombre?
Sono sempre stato molto affascinato dalla psicologia e dalle emozioni umane, questo mi permette di comprendere cosa sono effettivamente capaci di fare gli esseri umani. Emozioni, atteggiamenti, punti di vista, da dove vengono le persone, le conseguenze delle loro azioni, questo è ciò che mi interessa più di ogni altra cosa.
Credo che le crime stories siano in grado di favorire riflessioni sociali molto potenti, ma anche che – dato che si mette un personaggio in una situazione difficile o inusuale – attraverso di loro si riesca a rappresentare l’intera gamma delle emozioni disponibili e questo mi offre la possibilità di scoprire i limiti della capacità umane.
Le mie idee provengono dalla vita, dall’incontrare e parlare con la gente, dal comprendere i loro pensieri e osservare gli atteggiamenti nei confronti di alcune situazioni.
Il personaggio ‘colpevole’ che si guarda indietro e riflette sulla sua vita serve a far riflettere le persone sulla loro esistenza, portandoli a considerare le proprie azioni in vista delle conseguenze. È una cosa naturale che tutti noi facciamo, e ritengo sia un ottimo modo per raccontare una storia dal punto di vista più completo.
Michael Travis tornerà in un nuovo romanzo?
Non scrivo romanzi con personaggi seriali, non ho alcun interesse nel seguire un personaggio per più di qualche settimana o pochi anni della sua vita.
Per ogni libro nuovo che ho scritto, la gente mi ha mandato delle email per sapere se avevo intenzione di scrivere un sequel con lo stesso personaggio. Poi ho scritto un altro romanzo e le stesse persone mi hanno chiesto di fare un altro libro con quel nuovo personaggio invece dell’altro.
Credo che la metà della gioia di scrivere sia la creazione di un nuovo mondo, nuove facce, nuovi nomi, nuove identità e questo è qualcosa che si perde con la serialità.
Quindi no, mi dispiace, ma non ci saranno più romanzi con Michael Travis come protagonista.
Hai mai pensato di utilizzare i personaggi seriali?
No e non credo che lo farò in futuro. Per me, l’emozione di scrivere un romanzo è la creazione di nuovi personaggi. I libri che scrivo – dal mio punto di vista creativo – sono guidati dai protagonisti; cerco di caratterizzare al meglio il personaggio principale e lo affianco a personaggi secondari facendo in modo che anche questi però riescano a lasciare un segno indelebile sulla pagina e agli occhi di chi legge.
Di questa scelta ho parlato anche con un buon amico che scrive romanzi seriali. È convinto che il mio sia un lavoro più difficile, perché con una serie – una volta delineato il personaggio nei primi due o tre libri – ogni libro successivo deve reggersi solo sulla trama.
Così però non esiste la possibilità di introdurre qualche nuovo “angolo selvaggio” nell’anima di un protagonista dal carattere ormai ben definito.
Comunque è ovvio che i seriali diano una sensazione di sicurezza e familiarità.
Sicuramente nel Regno Unito sono molto apprezzati dal pubblico, ma io non sono mai stato uno che sceglie il percorso più facile!
Da dove hai tratto ispirazione per scrivere “Il diavolo e il fiume”?
Era semplicemente il desiderio di parlare della guerra del Vietnam . Mi ero occupato della pena di morte, del Ku Klux Klan, di Hollywood, della Mafia, della Cia, del FBI e di serial killers… volevo scrivere un romanzo su un altro dei grandi incubi americani, la guerra del Vietnam, appunto.
Gli anni ’70 sono stati un periodo difficile per gli Stati Uniti. Tra Nixon e la guerra del Vietnam la storia del paese ha toccato il fondo. Attraverso la storia di Whytesburg e la serie di omicidi sei riuscito a ricreare quel periodo di profonda crisi. Il nostro presente è diverso o vedi alcune somiglianze?
La punizione per non aver studiato la storia è che continuiamo a ripetere gli stessi errori. La situazione è la stessa. Conosciamo la situazione globale in modo rapido e veloce grazie a internet, ma stiamo facendo le stesse cose che facevamo negli anni ’60.’70 e ’80.
Penso che gli Stati Uniti non siano mai stati in crisi come ora. Siamo di fronte al collasso di un impero che ha passato decenni a saccheggiare e depredare, a invadere, a rubare a bombardare e a far cadere governi di stati meno ricchi, tutto in nome della loro avidità e di un diritto che loro stessi si sono arrogati. Stanno finalmente iniziando a raccogliere quello che hanno seminato.
Sia ne Il diavolo e il fiume che ne Il circo delle ombre c’è una grande base di documentazione che sostiene la tua immaginazione. Come e per quanto tempo ti sei preparato per la scrittura dei due romanzi?
Non mi preparo per la stesura di un romanzo, non faccio una scaletta e non so cosa mi serve sino a quando non ne ho bisogno. Documentarsi è affascinante, mi piace leggere, chiedere informazioni e scoprire tutto il possibile su qualcuno o qualcosa. E’ la mia natura.
John Lennon disse “trova qualcosa che ti piace fare, e allora non lavorerai nemmeno un giorno della tua vita”, amo la ricerca e amo scrivere, così non mi pesa lavorare. Mi documento mentre scrivo, nel momento in cui mi serve qualcosa,
Spesso devo lasciare spazi vuoti per le date, i nomi e altre cose per non interrompere il flusso della scrittura. Documentarsi troppo può creare dipendenza, ci sono così tanti soggetti diversi che possono diventare interessanti, ma in merito il mio agente ha espresso un’opinione estremamente valida, ha detto: “indossate il vostro apprendimento con leggerezza”.
Significa che non si dovrebbe mai seppellire la finzione sotto un mare di fatti reali, non si deve scrivere un libro di testo su cui studiare ma un romanzo che deve intrattenere.
Lo Sceriffo Gaines è un veterano del Vietnam. Ha sperimentato personalmente gli orrori di una guerra insensata. Ne Il Diavolo e il fiume la vicinanza alla morte sembra trasmettere una sorta di tragica indolenza, una generale atmosfera di sconfitta che travolge tutti i personaggi. È il male di una dimensione puramente umana generato dalle nostre scelte e azioni o è una presenza straniera che mina la vita di coloro che attraversano il suo percorso?
Credo che le persone siano fondamentalmente buone. Nel classificare i serial killer, l’FBI adotta gli schemi delle dinamiche situazionali; per comprendere le motivazioni che spingono una persona a compiere alcuni comportamenti vengono utilizzati i fattori sociali, familiari, ambientali, educativi, mentali ed emozionali.
Non credo che la psichiatria e la psicologia siano riuscite a comprendere veramente il perché alcune persone siano così distruttive e non hanno nemmeno fornito una teoria che possa, in qualche modo, avvicinarsi a trovare un rimedio o una cura.
Questa assenza di risposte contribuisce a farci rimanere sgomenti e dubbiosi davanti alla personalità e alle azioni di questo tipo di persone.
Cosa rende una persona un John Wayne Gacy e cosa un Ted Bundy o un Arthur Shawcross?
Cosa trasforma un imbrattatele in Hitler?
Non lo sappiamo e nessuno sembra avere una spiegazione. Credo ci sia una combinazione di molti fattori che spinge l’individuo oltre le caratteristiche standard di un comportamento umano.
Esiste anche una scuola di pensiero che tenta di decifrare questi soggetti attraverso Esperienza Eccezionale Umana – un singolo evento che provoca una reazione in una persona, che la spinge a fare qualcosa di così lontano dal suo carattere e che sfida ogni descrizione e spiegazione.
Ci sono molte teorie, ma una teoria è buona solo quando può aprire la porta a una soluzione e noi non abbiamo alcuna soluzione.
A rigor di logica non abbiamo la risposta.
Forse il punto è che solo una piccola percentuale della popolazione è veramente distruttiva, se non nel cuore, almeno nelle sue azioni. Ritengo che queste persone siano dissociate dalla realtà che percepiamo ordinariamente e, in qualche modo, risolvano i nuovi problemi reagendo nell’unico modo che conoscono: uccidendo i nemici,
L’ostilità è creata dallo stress di una o più esperienze traumatiche vissute e la permanente condizione di intensa paranoia trasforma ogni presunta minaccia in un pericolo percepito come reale e diretto contro la propria vita e il proprio benessere.
Ma questa, ancora una volta, è una teoria e ne abbiamo in abbondanza, sono le risposte a mancare.
Il male è presente in tutti, ognuno di noi ha avuto pensieri distruttivi o ha fatto cose che di cui si è pentito. Ciò che separa la persona sociale dall’antisociale è un riconoscimento di sé e un senso di auto-disciplina che governa le proprie azioni.
La persona ‘malvagia’ non riesce a trattenersi, ritiene che farlo sarebbe distruttivo per sé stessa.
In sostanza, una personalità ‘malvagia’ è un individuo egocentrico convinto che la propria sopravvivenza e i propri desideri siano più importanti di chiunque altro.
C’è un messaggio nascosto nei tuoi romanzi?
Io non credo. Anche se tutti i libri sono molto diversi c’è qualcosa che li accomuna; sono storie di persone comuni coinvolte in casi straordinari. Questa condizione offre l’opportunità di esplorare lo spettro delle emozioni umane, le reazioni, le decisioni e come affrontano le conseguenze.
Questo è ciò che mi affascina della scrittura e mi dà l’occasione di approfondire alcuni aspetti dell’umanità e della realtà che ci circonda.
Come definiresti i tuoi libri?
Sono thriller slow-motion, drammi psicologici sull’impatto della criminalità su individui, famiglie, società e umanità.
Cosa deve avere un libro per diventare un buon libro?
Onestamente, penso che un buon libro deve essere emozionante; deve coinvolgere il lettore, tutto il resto è secondario.
La differenza tra saggistica e narrativa è nello scopo primario, la non-fiction trasmette informazioni, il romanzo passioni.
Quando scrivo cerco di non rimanere impantanato nella vicende storiche, lavoro per evocare una reazione che sia rabbia, frustrazione, amore, odio, simpatia ecc.
I libri che ricordo, sin da quando ero bambino, sono quelli che mi hanno coinvolto emotivamente, che sono riusciti a farmi identificare con il personaggio e i sentimenti che ha vissuto nel tentativo di superare o risolvere un conflitto.
La prime cose che chiedo a me stesso, quando getto le basi per un nuovo romanzo sono: “che emozioni voglio suscitare nel lettore? Quando avranno finito di leggerlo, ci ripenseranno qualche settimana dopo? Che cosa voglio trasmettere, che cosa proveranno quando ricorderanno di aver letto il libro?”
Questo è fondamentale per me ed è ciò che cerco di fare a ogni romanzo che scrivo.
Ci sono un milione di libri scritti brillantemente, ma sono artefatti. Non mancano grandi colpi di scena, hanno un epilogo brillante ma, se dopo tre settimane, si chiede al lettore cosa pensa di ciò che ha letto, potrebbe avere qualche difficoltà a rispondere. Perché? Perché era tutto molto obiettivo, impersonale. I personaggi non erano credibili, non hanno affrontato situazioni irreali, o non hanno reagito come ogni persona normale.
In effetti, alcuni dei più grandi libri mai pubblicati, quelli che ora sono giustamente considerati dei classici, hanno una trama molto semplice ma sono capaci di suscitare forti emozioni del lettore.
Sono le passione che riescono a risvegliare che li rende memorabili.
Penso sia questa la chiave dei grandi libri e, per quanto mi riguarda, cerco sempre di rendere emozionante ciò a cui lavoro.
Ti ricordi il momento esatto in cui per la prima volta hai detto: voglio diventare uno scrittore?
Ho sempre saputo, fondamentalmente, che avrei voluto fare qualcosa di creativo, ma non avevo idea di quello che avrei fatto. Ero interessato alla musica, all’arte, alla fotografia, al cinema ma, nel novembre del 1987, ho avuto una conversazione con un amico che stava leggendo un libro. Me ne ha parlato con così tanta passione e tale intensità che fu come se qualcuno avesse acceso una luce nella mia mente.
“Questo è quello che voglio ottenere – ho pensato – voglio scrivere romanzi che facciano sentire così le persone”.
Quella stessa sera ho iniziato a scrivere.
Cosa mi ha spinto a scrivere? Amavo leggere, mi è sempre piaciuta molto la lettura e ho sempre pensato fosse bello creare qualcosa in grado di toccare nel profondo il lettore.
Sentire di avere qualcosa di importante da dire agli altri, questa è stata la scintilla.
Cosa consiglieresti a chi vuole iniziare a scrivere?
Credo che il peggior tipo di libro che si possa scrivere è quello che si ritiene possa piacere ai lettori. Il miglior libro che si può scrivere è quello che voi stessi vorreste leggere.
Non credo si debba creare un incipit accattivante, né si deve giungere a un “punto magico” o creare qualche trama particolare, dovete solo scrivere il libro che vi entusiasma.
Il vostro entusiasmo emergerà dalla pagina e contagerà il lettore.
Non so se i lettori concedano del tempo a un libro per decidere se continueranno a leggerlo oppure no, come accade per i film. Non so se per i libri funziona lo stesso meccanismo, personalmente sono affascinato più dallo stile utilizzato che dalla storia narrata; ho letto romanzi che non avevano una trama avvincente, ma il linguaggio con cui erano scritti era così bello e stimolante che li ho letti compulsivamente, spesso sforzandomi di rallentare per gustarmeli più a lungo.
Molti romanzi straordinari e di grande successo non funzionano come idee, ma a causa del modo in cui sono stati scritti o strutturati, hanno funzionato e funzionano ancora meravigliosamente.
Le guide che ti dicono come scrivere un best-seller in trenta giorni … beh, non so cosa dire.
Le grandi storie provengono dalle persone, dalle loro esperienze di vita non dalle formule studiate a tavolino.
Forse dipende dal tipo di storie che si vuole raccontare. Sono interessato a scrivere libri che coinvolgano il lettore, non mi interessa scrivere duecentocinquanta pagine con un cadavere all’inizio e un colpevole alla fine. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nel farlo anzi, è solo che non voglio scrivere questo genere di letteratura.
Oltre a questo, è necessario perseverare, persistere e non mollare mai.
Inviate il vostro romanzo alle case editrici, cercate un agente, trovare qualcuno che lavora con voi che è entusiasta di come scrivete e poi proseguire su questa strada!
Le uniche parole che mi davano la forza per andare avanti erano quelle di Benjamin Disraeli: ‘Il segreto del successo risiede nella costanza con cui si persegue uno scopo.”
Quali sono i tuoi progetti attuali?
Sto scrivendo il primo volume di una trilogia denominata “Kings of America”, avrà una durata di circa 50 anni e racconterà la storia di Hollywood, nel bene e nel male, attraverso gli occhi di due famiglie immigrate in America – una dall’Irlanda e una dalla Corsica. Sto lavorando a un album di musiche per il cinema e la TV, commissionato da Universal Records e al secondo album della mia band, ‘The Whiskey Poets’.
Presto partiremo per il tour del Regno Unito e per quello europeo.
Sono coinvolto come consulente nella sceneggiatura di ‘A Dark and Broken Heart’ che verrà prodotto quest’anno.
Con uno scrittore francese sto avviando un nuovo progetto per una graphic novel. Ho anche aperto una società per importare il vino dall’Europa dell’Est al Regno Unito.
Infine, sto girando con le presentazioni dei miei libri attraverso la Francia e l’Italia per sostenere la mia nuova casa editrice, Editore 21.
Milanonera ringrazia R.J. Ellory per la gentilezza e disponibilità.