[La prima e la seconda puntata di questo saggio]
Considerazioni finale sul genere thrilling
Il genere thrilling ha dei canoni ben stabiliti, dove ogni dettaglio della trama è funzionale alla ricerca della suspense e non esiste un protagonista prestabilito o un investigatore che solo all’ultima pagina, o nella sequenza finale, scioglie l’enigma consegnando alla giustizia il colpevole, come un vero e proprio deus ex machina. No, niente di tutto ciò. Certo, un poliziotto può benissimo comparire nella storia, ma solo per svolgere il suo ruolo “istituzionale” ma non per questo meno decisivo, come il commissario Morosini (Enrico Maria Salerno) ne “L’uccello dalle piume di cristallo”, il suo collega Calcabrini (Eros Pagni) in “Profondo Rosso”, o il mite e sornione Giuranna (Enzo Tarascio) che sia aggira nella necropoli dove “L’etrusco uccide ancora”, o ancora l’ambiguo maresciallo dei carabinieri (Ferdinando Orlandi) che chiude un occhio o forse due davanti all’allucinante facciata de “La casa con le finestre che ridono”. Non di rado, l’investigatore ha un ruolo marginale, come in “Caramelle da uno sconosciuto” (interpretato da Maurizio Donadoni) o addirittura non compare affatto, come in “Quattro mosche di velluto grigio” o “Deliria”.
Tutto ciò ha ovviamente un senso: il personaggio principale della storia, uomo o donna che sia, è infatti una persona qualunque, che un giorno, all’improvviso, si trova invischiato in una ragnatela di paura destinata a diventare terrore puro, nella quale,a furia di dibattersi, finirà per restare impigliato senza speranza. Vittima predestinata, come il batterista Roberto Tobias (Michael Brandon), ossessionato da un’immagine che sembra il volo di una mosca di velluto grigio, incauto testimone oculare come lo scrittore Sam Dalmas (Tony Musante), alla ricerca di un suono che sembra la vibrazione prodotta dalle piume di cristallo di un animale esotico, o ideale capro espiatorio, come l’alcolizzato archeologo Jason Porter, perseguitato da una (im)possibile reincarnazione di una sanguinaria divinità etrusca, o infine troppo curioso, come l’ostinato restauratore Stefano (Lino Capolicchio) davanti all’affresco di una sorta di allucinato Ligabue assassino, o il giornalista Andrea Martelli (Tomas Milian), sullo sfondo di una Basilicata western dove non si esita a seviziare un “paperino”.
A tirare i fili di quella ragnatela c’è qualcuno, nell’ombra: una figura spaventosa, avvolta in un impermeabile nero, un cappello calato sugli occhi che lo rende irriconoscibile, le mani che calzano un paio di guanti di pelle scura pronte ad afferrare un coltello la cui lama manda sinistri bagliori. Sono immagini che abbiamo visto tante e tante volte al cinema da aver raggiunto nel nostro inconscio una forza evocativa così potente da poter essere adottata anche nella narrativa.
Abbiamo usato un termine, personaggio principale, per descrivere colui o colei che tradizionalmente vengono definiti “protagonisti”. Un motivo c’è: fuori dalle convenzioni, è realistico considerare protagonista di una storia qualsiasi cosa (quindi non solo un personaggio, ma anche un ambiente, un fatto ben preciso, una circostanza storica, una malattia mentale) senza la quale la storia stessa non avrebbe senso. E se ciò è vero, come negare che sia il trauma infantile subìto da Nina il vero protagonista di “Quattro mosche di velluto grigio”, o quello, scandito dalle note della Messa da requiem di Verdi, che spinge Igor Samarakis a rinnovare, a molti secoli di distanza, il sanguinoso mito di Tuchulca ne “L’etrusco uccide ancora”? E non è forse una paranoia latente, ma non molto, ad armare la mano che colpirà un uomo inerme accanto ad un albero di Natale, scatenando una reazione che, molti anni dopo, rischierà di travolgere l’inconsapevole testimone oculare Marc Daly di “Profondo Rosso”, o l’ossessione di ritrarre sulla tela gli ultimi istanti vita di un agonizzante il filo conduttore che Buono Legnani annoda nell’horror padano “La casa con le finestre che ridono”? Ecco quindi che è l’essenza stessa della trama a proporre una struttura spiazzante, quasi una figura ellittica dove i personaggi gravitano attorno ad una situazione che rappresenta la loro ragion d’essere.
Se il personaggio principale della vicenda potesse gettare uno sguardo, anche fuggevole, dietro la cortina di paura, che in una storia thrilling verrà lacerata solo all’ultimo fotogramma o nella pagina finale, si accorgerebbe, più stupito che spaventato, di riconoscere il viso che fa capolino sotto la tesa del cappello scuro. E’ un viso conosciuto, infatti, addirittura familiare: è il viso di colui, o colei, che tanti anni prima subirono un trauma violento che ora si è risvegliato, dopo un sonno così profondo da sembrare una morte apparente, e reclama, a gran voce, un pesante tributo. E’ il viso di qualcuno vicino al nostro personaggio, perché così è il male, vicino a noi, tanto da passare inosservato, e infatti noi non ce ne accorgiamo. O non vogliamo vederlo, perché fa paura: una reazione umana, addirittura di complicità, diretta o meno, come quella di Carlo verso sua madre in “Profondo Rosso”, o del maestro Nikos Samarakis verso il figlio Igor ne “L’etrusco uccide ancora”.
“Sono stato cieco, non dovevo cercare tanto lontano”, esclama Roberto, mentre il monile della collana di Nina, oscillando, sembra descrivere la traiettoria di “Quattro mosche di velluto grigio”. E non è solo terribilmente vicino, il male, ma anche potentissimo e minaccioso, avvolto nelle pieghe dell’impermeabile, la tesa del cappello calata sugli occhi, le mani, che calzano guanti di pelle nera, pronte ad impugnare un coltello. E rapido, come se non bastasse. Spazza via ogni cosa, come un devastante terremoto, riuscendo a precedere gli investigatori o il personaggio principale sempre di qualche minuto, ma decisivo per chiudere la bocca ad un testimone pericoloso o per far sparire un indizio compromettente. Così potente, da sembrare invincibile. Così rapido ed implacabile da poter scivolare senza ostacoli verso un epilogo che sembra scontato.
Ma non è così. Perché il male può essere sconfitto, e lo sarà, anche se la battaglia sarà dura e difficile, a tratti disperata, e questo è davvero inevitabile, almeno nella realtà letteraria e cinematografica.
Perché, in definitiva, è questo quel che rimane, dopo aver scritto una storia thrilling, destinata alla stampa o ad una trasposizione cinematografica: quel male, vicino, forte ed implacabile, che pareva invincibile, è stato affrontato e vinto da colui, o colei, che un giorno, imprevedibilmente, rimasero impigliati nella ragnatela. E non rimane solo questo, ma anche la sensazione sconvolgente di aver fatto un viaggio nella mente sconvolta di chi un giorno subì un graffio sull’anima, e per cicatrizzare la ferita decise tanto tempo dopo di innescare una selvaggia spirale di violenza. Forse, ripetiamo forse, non è stato del tutto inutile, quel viaggio, perché viaggiare vuol dire conoscere, e quindi capire, e comprendere è cosa ben diversa dal giudicare frettolosamente. E chiunque volesse tentare di giudicare, dovrebbe comunque, prima, cercare di capire.
[La prima e la seconda puntata di questo saggio]