Alfredo Colitto

Il libro (di un altro) che avresti voluto scrivere e il libro (tuo) che NON avresti voluto scrivere
Il libro che avrei voluto scrivere è “Romanzo Criminale”, di De Cataldo. E’ per i nostri anni quello che “Il Gattopardo” è stato per gli anni Sessanta. Una storia epica, forte e coinvolgente, che coglie lo spirito di un’epoca. Ed è un romanzo che, come tutti i libri veramente belli, sfugge alle etichette.
Il libro mio che non avrei voluto scrivere non esiste, ma c’è un’altra cosa che non avrei mai voluto fare: usare uno pseudonimo. Adesso però sono guarito, e firmo solo con il mio nome.

Sei uno scrittore di genere o scrittore toutcourt, perché?
Mi ritengo uno scrittore e basta, perché non mi piacciono le gabbie. Tra narrativa colta e “plebea” preferisco quella plebea, almeno da scrivere, come lettore sono onnivoro. Ma se mi ritenessi uno scrittore noir (odio il termine “giallista”), che è comunque il genere che più mi attrae, dovrei rinnegare per esempio il mio romanzo Bodhi Tree, che è una favola mistica e con il noir non c’entra un accidente. Perché crearsi problemi da soli, quando ci pensano già gli altri?

Un sempreverde da tenere sul comodino, una canzone da ascoltare sempre, un film da riguardare
Io i sempreverdi li cambio a seconda del periodo. Una volta era l’ultimo volume della Recherche di Proust, un’altra volta era quasi qualunque libro di Manchette. Ora direi Meridiano di Sangue, di Cormac McCarthy. Lo stesso vale anche per canzoni e film. In questo periodo: Out of Here, di Juliette Lewis, e Gli Spietati, di Clint Eastwood.

Si può vivere di sola scrittura oggi?

Se intendi vivere di diritti d’autore, è come chiedere se si può vivere pensando di vincere al Lotto. A qualcuno capita, ma è meglio non farci troppo conto. Se invece intendi vivere di lavori che hanno a che fare con la scrittura, come insegnare scrittura creativa, tradurre, scrivere romanzi e racconti anche su commissione, fare editing e sviluppare soggetti e sceneggiature per cinema e televisione, la risposta è decisamente sì, visto che io vivo così.

Favorevole o contrario alle scuole di scrittura creativa? Perchè?
Favorevole, e non solo perché, con alcuni amici scrittori, ne ho fondata una a Bologna. Sinceramente con capisco il gran parlare che si fa sull’argomento. Perchè nessuno si pone la stessa domanda riguardo alle scuole di musica o di pittura? Per quale motivo la scrittura dovrebbe essere l’unica arte (o mestiere) che sfugge all’insegnamento e si possiede solo per scienza infusa? Rimando qui a un mio articolo apparso su www.ivedovineri.it dal titolo “La scrittura si può insegnare?”. L’ho scritto come risposta polemica (anzi, come risposta incazzata) a una discussione avuta a casa di amici.

Un’ultima domanda fuori dagli schemi. Tu sei uno dei traduttori italiani di Lansdale: quanto c’è di te nei libri di questo autore che leggiamo in Italia? Cerchi di essere “trasparente” oppure fra Hap e Leonard c’è anche un po’ di Colitto?
Come sostengo nel mio sito (www.alfredo-colitto.com) alla voce traduzioni, il mito del traduttore “trasparente” è, per l’appunto, un mito. Passare un testo in un’altra lingua vuol dire in un certo senso ricrearlo. Bisogna calarsi nello stile, nella “voce” di un autore, e trasportarlo in un’altra cultura, in un’altra sintassi, che usa giri di frase differenti. e il testo non ne esce mai intatto. Il segreto di una buona traduzione sta nel mantenere la misura, evitando, per quanto possibile, di “sovrapporsi” all’autore. In quanto a Lansdale, mentre traduco i suoi libri non mi sembra di lavorare. Mi vanno via le ore e mi diverto. E spero proprio che un po’ di quel mio benessere filtri anche nella pagina, tra Hap e Leonard.

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