“Un bel tacer non fu mai scritto”. È una frase che più di una volta ho sentito attribuire a Dante. Ecco, io ammetto la mia ignoranza: ho letto tutto quello che potevo su Dante, compresi i commentari, ma non posso certo affermare di conoscerne ogni singolo scritto.
Eppure, quella frase in particolare, non l’ho trovata nella sua opera.
L’ho però scoperta, i casi del Destino, negli scritti di un altro autore: Claudio Monteverdi, nato a Cremona il 15 maggio 1567 e morto a Venezia il 29 novembre 1643.
Ne “Il ritorno di Ulisse in patria” del 1640, all’inizio della scena ottava del quinto atto, Ericlea conclude il proprio monologo con queste parole:
“Ericlea, che farai? Tacerai tu?
Insomma un bel tacer mai scritto fu.”
Esiste poi una variante della frase stessa: “Un buon tacer non fu mai scritto”, anche questa attribuita a Dante. Oppure definita semplicemente come “frase proverbiale italiana”.
Se c’è qualcuno fra voi che mi leggete che può aiutarmi a capire, lo faccia. E soprattutto mi riporti l’esatto riferimento dantesco. Se – e spero sia così – esiste.
Certo, perché se non esistesse allora il problema sarebbe ben maggiore. Non si tratterebbe solo di una mia conoscenza limitata – che come qualsiasi limite mi offrirebbe la possibilità di essere superato – bensì di una conoscenza diffusa ma errata. Un po’ come un sentito dire che, a furia di essere tale, assume i contorni di un sapere sfumato e autoreferenziale.
Allora sì che il silenzio sarebbe l’unica soluzione: aiuterebbe a disperdere le parole di fumo che aleggiano davanti ai nostri occhi.
E lo aveva capito ben prima di molti altri suoi contemporanei Aldo Giurlani. In arte – e con il nome della nonna materna –: Aldo Palazzeschi.
A Palazzeschi, personalmente, devo molto. A lui e al suo “Perelà uomo di fumo”: brutto titolo semplificatorio attribuito nel 1954 al romanzo – o meglio all’antiromanzo – “Il codice di Perelà”. Testo scritto, in realtà, fra il 1908 e il 1910 e pubblicato – col titolo corretto – nel 1911 dalle edizioni futuriste “Poesia”.
Parole di fumo che velano significati originari per ricoprirli con coltri di consapevolezze illusorie. E spesso fasulle o comode. Parole di fumo che scompaiono davanti al silenzio. Forse.
E così la pensa e lo scrive, anche Paul Auster, geniale – a parer mio – autore, fra gli altri, di “Trilogia di New York”: “Per me la più piccola parola è circondata da acri ed acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia.”
Di Paul Auster, consiglio la lettura anche de “L’invenzione della solitudine”, pubblicata dai tipi di Einaudi nel 1993 e de “Il libro delle illusioni”, sempre di Einaudi ma del 2003.
Sono piccole grandi letture, lo ammetto – assieme a quelle di Dante, di Monteverdi, di Palazzeschi e di molti altri autori e autrici – da fare in silenzio.
Per poter ascoltare, liberi da qualsiasi rumore di sottofondo, il suono potente e autorevole di ogni singola parola. Scritta.
E “lo spazio nero” che la avvolge.